La Protesi d’anca

Anatomia dell’anca

L’anca è una articolazione formata da due capi articolari: la testa del femore (sfera), e la cavità acetabolare (che accoglie la sfera). Le due superfici articolari sono rivestite di cartilagine articolare che permette lo scivolamento delle due superfici e protegge l’osso sottostante.

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1- testa femore

2- acetabolo

3- grande trocantere

4- piccolo trocantere

5- diafisi femorale

6- ala iliaca

Le due superfici articolari (testa del femore e acetabolo) sono avvolte in una capsula articolare, robusta e riccamente innervata  che è rinforzata da 5 formazioni ligamentose che permettono il mantenimento della posizione reciproca dei due capi articolari durante i movimenti ma soprattutto a riposo. La stabilità dell’articolazione è inoltre assicurata dai fasci muscolari che avvolgono l’articolazione e ne permettono la motilità. La vascolarizzazione della testa del femore è uno dei punti cruciali di molte patologie dell’età sia pediatrica che adulta che si manifestano a carico dell’articolazione dell’anca. Tale vascolarizzazione è mantenuta dalle due arterie circonflesse laterale e mediale della testa del femore, originanti dall’arteria femorale profonda, e dall’arteria della testa del femore che dall’acetabolo penetra appunto nella testa femorale. I movimenti dell’articolazione dell’anca sono 7: flessione, estensione, abduzione, adduzione, intrarotazione, extrarotazione, e circonduzione (integrazione tra loro di tutti i movimenti per permettere un movimento circolare continuo dell’articolazione, e tipico solo delle articolazioni a sfera).

La flessione media è 120°-140°.L’estensione arriva a 20°, l’abduzione arriva a 35-70°,l’adduzione è sui 20-40°, l’intrarotazione è sui 15-30°, l’extrarotazione è 30-60°.

Patologia dell’anca

La più comune tra le malattie che possono colpire l’anca dell’adulto è l’artrosi, o Coxartrosi. Si tratta di una malattia cronico-degenerativa, che si instaura progressivamente e conduce ad una  riduzione della capacità di movimento e quindi ad una disabilità crescente nell’arco del tempo. Può essere grossolanamente definita una sorta di “usura” dei capi articolari, nella quale lo strato di cartilagine che riveste la testa del femore e la cavità acetabolare si assottiglia progressivamente fino ad esporre l’osso sottostante. Questo reagisce  talora addensandosi, talaltra perdendo di consistenza e producendo escrescenze periferiche appuntite dette osteofiti. Nelle fasi più avanzate della malattia la capsula articolare si ispessisce e i muscoli si retraggono fino a portare il paziente a non poter più deambulare.

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Oggi i fattori di rischio e i meccanismi che governano l’artrosi dell’anca sono meglio conosciuti che in passato, e questo ha permesso in qualche caso di mettere a punto interventi preventivi (per es. in caso di necrosi asettica della testa del femore, displasia congenita dell’anca, impingment femoro-acetabolare). Purtroppo la diagnosi è spesso tardiva, e l’unica soluzione efficace è la sostituzione protesica dell’articolazione ormai irreversibilmente danneggiata.

La coxartrosi è una patologia tipica dell’età avanzata (oltre i 60 anni), soprattutto nelle sue forme primarie (ovvero a causa ignota), che dimostrano peraltro una certa predilezione per il sesso maschile. Se si considerano le forme secondarie, cioè conseguenti ad una patologia pre-esistente, l’età media di insorgenza si abbassa a 35-40 anni e si osserva, almeno nel nostro paese, una prevalenza femminile legata alla forte incidenza della displasia congenita dell’anca. Una semplificata classificazione dell’artrosi vede la divisione in 2 grandi capitoli:

– Artrosi primaria o idiopatica

– Artrosi secondaria;

questa si divide ulteriormente in

Post-traumatica: distorsioni – lussazioni – fratture;

Da malattie congenite, acquisite o dello sviluppo localizzate: malattie dell’anca (morbo di Legg-Calvè-Perthes, Displasia congenita dell’anca, epifisiolisi), da fattori meccanici (varismo, valgismo, dismetria degli arti inferiori, impingment femoro acetabolare, microtraumi…);

Da malattie congenite, acquisite o dello sviluppo generalizzate: displasie ossee (displasia multipla epifisaria, displasia spondilo-epifisaria), sindromi da ipermobilità, malattie metaboliche (obesità, diabete, gotta, emocromatosi, emoglobinopatie…), malattie endocrine (acromegalia, iperparatiroidismo);

Da depositi di sali di calcio: condrocalcinosi (pirofosfato, diidrato ed altri fosfati basici di calcio), artropatia destruente ;

Da altre malattie osteoarticolari: osteonecrosi asettica, malattia di Paget, artriti infettive e tubercolari, artrite reumatoide e spondiloartriti, artropatie neuropatogene (Charcot-joints), osteocondromatosi.

Il paziente coxartrosico presenta un dolore tipico (coxalgia), localizzato a livello dell’inguine e talvolta al gluteo, dolore che talvolta impone una diagnosi di differenza con analogo dolore di origine dalla colonna lombare. E’ frequente l’irradiazione del dolore lungo la faccia anteriore della coscia fino al ginocchio. La causa del dolore è essenzialmente meccanica; di conseguenza questo è provocato dalla deambulazione e dal movimento articolare in genere, mentre diminuisce a riposo.

Caratteristica la starter sindrome con il paziente che riferisce rigidità mattutina o dopo posizione seduta prolungata, che migliora con il movimento, salvo ripresentarsi con l’affaticamento. Il dolore provocato dal carico determina una zoppia detta di fuga: poiché il paziente tende a ridurre il periodo di appoggio sul piede corrispondente. Il dolore causato dal movimento è inoltre responsabile, per via riflessa, della contrattura della muscolatura circostante. Si osserva dunque una limitazione precoce della rotazione interna (il paziente non riesce più a ruotare la punta dei piedi “all’indentro”, non riesce a flettere l’anca mantenendo l’arto in asse tendendo perciò ad allargare, abdurre, l’arto) e, più tardivamente, anche degli altri movimenti, fino al punto in cui semplici gesti quotidiani come mettere una calza diventano impossibili. Negli stadi più avanzati l’usura del rivestimento cartilagineo dei capi articolari può generare accorciamenti significativi dell’arto interessato, fino ad oltre 1 centimetro. La diagnosi di coxartrosi è squisitamente radiologica. E’ sufficiente una radiografia nelle due proiezioni standard (anteroposteriore di bacino eseguita in piedi e l’ assiale d’anca) per evidenziare i segni radiologici fondamentali di cui abbiamo parlato: la riduzione della rima articolare, l’addensamento dell’osso al di sotto della cartilagine, i geodi (zone di rarefazione e talora cavitazione nell’osso) gli osteofiti e l’eventuale differenza di lunghezza degli arti.

 

Terapia

La terapia farmacologica non è in grado di curare l’artrosi dell’anca  e dovrebbe essere impiegata, in modo possibilmente ciclico e non continuativo, per alleviare i disturbi nel paziente non candidato all’intervento chirurgico (perché non ancora il momento o inoperabile per patologie concomitanti).

Il trattamento farmacologico fondamentale è rappresentato dagli antinfiammatori non steroidei (quali il diclofenac, il piroxicam o i più recenti etoricoxib o celecoxib) gli antidolorifici (come il Tramadolo e le sue associazioni con il paracetamolo ed i più recenti farmaci a base di Ossicodone o Tapentadolo nelle loro varie formulazioni),mentre alcuni integratori dedicati (preparati a base di acido ialuronico e/o glucosamina) potrebbero avere un effetto benefico nel rallentare la degenerazione del tessuto cartilagineo; ma, anche se l’esperienza clinica ci induce ad ottimismo,  non vi sono ancora studi adeguati e validati che confermino questa esperienza.
In questa sede, profonda e difficilmente raggiungibile per via topica (transcutanea), la somministrazione sistemica dei farmaci appare essere la più agevole ed efficace. Le terapie infiltrative sono indicate solo in casi molto selezionati e di competenza strettamente specialistica. Data la profondità dell’articolazione coxo-femorale, le comuni terapie fisiche (laser, ultrasuoni, elettroforesi…) risultano in genere inefficaci. Nei soggetti obesi il calo ponderale ottiene grandi benefici e può prevedibilmente rallentare l’evoluzione del danno articolare, mentre un moderato esercizio fisico in assenza di carico (nuoto, bicicletta) permette di conservare più a lungo la mobilità e il trofismo muscolare, ritardando la comparsa di rigidità. Ovviamente le attività fisiche in carico, come il jogging, e tutti gli sport di contatto sono da evitare, poiché potrebbero accelerare la progressione del danno cartilagineo.

La protesi d’anca  consiste nella sostituzione completa dell’articolazione tra il femore ed il bacino. Questa sostituzione avviene applicando una coppa metallica (di solito in lega di titanio) nel bacino a ricoprire internamente l’acetabolo ed uno stelo che viene infisso nel femore e che mediate una sfera si articola con l’interno della coppa.

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La fissazione all’osso può avvenire mediante l’interposizione di un sottile strato di un materiale plastico detto cemento applicato semiliquido, nel solidificare fissa la coppa nell’acetabolo; oppure grazie alla forma e alla lavorazione di superficie delle due componenti ( coppa e stelo) queste sono in grado di fissarsi prima meccanicamente e poi grazie a fenomeni di ricrescita ossea, osteointegrazione, all’osso ospite.

Le forme e le dimensioni delle protesi sono le più varie; i materiali sono soprattutto lega di titanio, acciaio, ceramica, polietilene a peso molecolare ultraelevato e spesso trattato per aumentarne la durezza e la resistenza al consumo.

Potrete vedere un filmato schematico che mostra come avviene la sostituzione dell’articolazione dell’anca ciccando sul link seguente protesi di anca (collegamento ipertestuale al filmato anca).

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La riabilitazione avviene già dal giorno successivo all’intervento con mobilizzazione passiva e poi attiva nel letto. Il paziente viene posto seduto già dalla 2ª – 3ª giornata (se le condizioni generali lo consentono) e successivamente viene posto in piedi con l’aiuto di un deambulatore prima e poi di un paio di bastoni antibrachiali con possibilità di un carico parziale sull’arto operato.

La degenza ospedaliera dura mediamente 5-7 giorni ed il paziente viene rinviato al proprio domicilio o più frequentemente inserito in un percorso riabilitativo che lo porterà nel giro di 35 -40 giorni alla ripresa quasi completa della propria autonomia. Ovviamente questi tempi sono funzione della gravità della situazione preesistente, delle condizioni generali del paziente, del suo peso, della collaborazione del medesimo.

La domanda che più frequentemente ci sentiamo rivolgere dai pazienti  è  « quanto dura una protesi d’anca e cosa fare quando ha terminato la sua vita? »

La durata di una protesi è influenzata da innumerevoli fattori: il disegno, il tipo di superficie di scorrimento delle due componenti (accoppiamento)

Metallo/Polietilene

Metallo/Metallo

Metallo/Polietilene

la qualità dell’osso ospite, il tipo di riabilitazione eseguita, la tecnica chirurgica impiegata, l’età, lo stato del paziente e le patologie che possono intercorrere prima e dopo l’intervento.

Possiamo dire comunque che una protesi che non da problemi prima dei 15 – 18 anni costituisce un buon risultato anche se abbiamo molti pazienti operati più di 25 anni fa che non mostrano problemi sostanziali al loro impianto. L’uso poi di protesi ad alta modularità ( cioè nelle quali possono essere sostituiti più di 2 – 3 elementi) e il controllo almeno annuale del paziente possono comunque permettere in molti casi di poter sostituire 2 o più elementi usurati mediante un intervento di revisione molto più facile e meno gravoso per il paziente rispetto ad una revisione completa di tutto l’impianto.

 

Gli  insuccessi

Gli  insuccessi nella chirurgia protesica dell’anca possono essere precoci o tardivi:

– l’instabilità: consiste nell’incapacità delle due componenti di rimanere in contatto specie in seguito a certi movimenti. Tutte le protesi specie se sollecitate ad eseguire certi movimenti incongrui posso andare incontro a lussazione. Tale evenienza diviene sempre meno frequente con il passare del tempo grazie alla formazione di una sorta di neocapsula che ne migliora la stabilità e per la ripresa del tono muscolare che ulteriormente stabilizza l’articolazione, ma esistono alcuni movimenti che possono essere considerati sempre a rischio per la stabilità dell’impianto e sarà cura del chirurgo e del riabilitatore chiarire quali movimenti eseguire e quali no in relazione al percorso riabilitativo del paziente;

– l’infezione della protesi può talora rappresentare un evento drammatico che può portare fino alla necessità di togliere la protesi per poi dopo alcuni mesi di terapia rimetterne una nuova. L’infezione può essere contratta durante l’intervento, nonostante tutti gli accorgimenti di sterilità e di profilassi antibiotica, oppure tardiva a partenza da un focolaio infettivo ( un granuloma dentario, una infezione urinaria trascurata).

Il riconoscimento precoce di un processo infettivo ha qualche possibilità di trattamento farmacologico grazie all’evoluzione della farmacoterapia talora però il germe riesce a crearsi una sorta di cupola protettiva adesa al metallo della protesi che lo rende insensibile agli antibiotici. In questa, fortunatamente rara, evenienza è appunto necessario togliere la protesi, inserire un dispositivo detto spaziatore solitamente di cemento polimerizzato aggiunto di antibiotico, e dopo l’avvenuta sterilizzazione del focolaio infettivo applicare una nuova protesi con caratteristiche specifiche.

– La mobilizzazione asettica (non infettiva), vede come causa principale l’incapacità dell’osso ospite di integrare il dispositivo metallico, nonostante la grande biocompatibilità e capacità di indurre l’osteointegrazione dei nuovi materiali utilizzati per la chirurgia protesica. Talora la forma dell’impianto ed il modo in cui è stato applicato è causa di assottigliamento dell’osso ospite e conseguente perdita di tenuta dell’impianto.

– L’usura e/o la rottura di alcune componenti:  la superficie di scorrimento tra le due componenti protesiche è soggetta a consumo; tale consumo varia a seconda del materiale con cui sono costruite le componenti.  Qua sotto è possibile vedere una rappresentazione schematica  di alcuni degli accoppiamenti più frequenti con l’usura e la produzione di particelle per anno di utilizzo.

Non è possibile dire in assoluto quale sia il miglior accoppiamento, ogni tipo di accoppiamento ha i suoi vantaggi che vengono valutati dal Chirurgo in relazione al paziente.

Comunque l’usura delle componenti è certamente una delle cause di fallimento dell’impianto per il progressivo alterarsi della loro forma (fino ad arrivare alla rottura di una di esse) o per la reazione dell’organismo ospite alle particelle provenienti da questa usura che possono essere causa di assottigliamento dell’osso, formazione di granulomi da corpo estraneo fino a provocare vere e proprie raccolte ascessuali sterili che impongono la sostituzione dell’impianto.

Anche se le protesi, come tutti i dispositivi medici, sono sottoposte a severi controlli di qualità e resistenza prima di ottenere l’autorizzazione ministeriale per il loro uso, capita comunque in una piccolissima percentuale di casi che una o più componenti possano rompersi per le cause più svariate. Questa rara eventualità rientra tra gli eventi avversi che vengono segnalati al Ministero della Salute ed alla Ditta produttrice che avvia una procedura di revisione e valutazione per determinarne la causa.

Puoi visualizzare il video che spiega i passi dell’operazione qui.